Lui è un ragazzone alto, muscoloso, la maglietta attillata rende giustizia alle ore passate in palestra, così come ai suoi tatuaggi che hanno una superficie ampia dove giacere. Linee di inchiostro che girano in lungo e in largo intorno al bicipite, per poi scendere verso il braccio, parallele a dei tubi sottopelle che in realtà sono vene, anche loro testimoni di bilancieri e pesi vari tirati su con estrema forza. E ancora, visi e scritte varie su collo e petto.
Ha delle cuffiette alle orecchie, la testa appoggiata al muro del vagone della metropolitana. Tiene il cellulare in mano. Lo fissa continuamente.
E canta.
Canta a voce alta.
E piange.
Piange come un bambino, che se ne frega di dove si trova e lascia scorrere le lacrime in barba a ogni ‘vergogna’ sociale. Che poi… in realtà, la gente lo guarda con affetto e sensibilità.
Quando vado verso la porta per scendere, mi avvicino a lui e vedo Il suo telefonino mostrare una foto, mezzo busto. È un uomo, potrebbe essere suo padre, sorride con un sorriso vero ma tenuto troppo a lungo in attesa dello scatto. Ha una camicia a quadri e una giacca, dalla cui tasca esce vistosamente un fazzoletto di stoffa bianco. Lo stesso fazzoletto, con cui asciugava quelle stesse lacrime del mio amico tatuato, quando era bambino.